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Capita ogni tanto, che ci si innamori della copertina fumettata di un cd insperato e se ne succhi fuori tracce di eternità. In “Civilization & Wilderness” di “singoli” ce ne sono ben undici e a forza di succhiare si prende una colossale sbronza di cui non ci si libera facilmente.

Trovare cinque giovani musicisti con un alto tasso sanguigno black nelle vene, 50% di derivati rock e soul funky nelle arterie, invece che l’ennesimo quintetto pro-Vicius sotto etti di gel, fa gridare alleluia. E se si considera che si è nella nebbiosa bassa Emilia, viene da gridare al miracolo. Il suono dei Rufus Party è un richiamo ottenuto percuotendo un gran battito nero: lo elettrificano, lo spogliano, lo rivestono, lo dilaniano e lo rileggono in un art-suono che mette in soggezione i neofiti e dà i brividi ai cultori.

Nel suo incedere deciso l’album frusta con shake shuffle atropinici (“Mr. Shuffle”), con rock-blues stracolmi di riff che agguantano come liane i fiori e i sogni recisi dei seventies ipercalorici; si avvinghia a ventosa nella dirty Detroit dell’Iguana Iggy come nella trasandata euforia di Ian Brown degli Stone Roses (“Ghettoblaster suicide”, “Walk of fame”, “There’s a woman on the bench”).

Ogni traccia è un mondo a sè, come dire di materiale plasmabile, disarmante in tutta la sua bellezza e rielaborazione personalissima che sa “far spiccarre il volo al momento giusto” dove non mancano di certo le ballatone molto rock-nigger a la Rolling Stones o Aerosmith di tanti lifting fa (“Poison in your drink”, “Love and money”) e il taftà impalpabile soul di Seal (“I owe you everything”) in cui si battono i denti di goduria per una chitarrina che svolazza accordi wah-wah sopra il tremolo dell’hammond.

“Civilization & Wilderness” non è un album blues, prettamente detto, ma è uno di quei lavori che ha scavato nel blues, che si è abbeverato ed ha ancora sete di quella triste gioia nera, e l’ha fatto propria trasformandola.

I reggiani Rufus Party hanno un suono maturo quanto basta per non cadere in un inutile cerebralismo; suonano con l’anima e si sente, come se, nonostante la loro età , non abbiano mai fatto altro nella loro esistenza, saltando a piè pari le pratiche rockettare adolescenziali.

Un lavoro discografico di notevole trasporto emozionale e tecnica sonora d’insieme superiore alla media, che riscontra però una sola pecca “imperdonabile”: quella di essere uscito in Italia.

Dove arriveranno? Difficile rispondere, ma ben presto saranno in molti a sentirsi come un pugile a tappeto dopo averli ascoltati. A noi non resta che assorbire un po’ di questi suoni che i Rufus si portano dietro come i soldati di Re Edoardo, eroi prima ancora d’aver vinto la guerra.
Max Sannella (mescalina)

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